L’isolamento sociale può creare infiammazione?

QUAL È IL TUO TEMPERAMENTO?
7 Gennaio, 2021
Meditazione e mind-wandering, il vagare della mente
26 Aprile, 2021
isolamento sociale

A cura di: Dott. Gianluca Bruti

Il 2020 ci ha portato sicuramente dei cambiamenti, a me per esempio, ha fatto evolvere verso un tipo di comunicazione che passa attraverso la tecnologia a cui sono sempre stato idiosincratico e che mai mi sarei immaginato di usare.
Il periodo della pandemia ci ha fatto capire quanto siamo tutti collegati, che esiste un’energia che collega tutto e che isolarci significa creare un artifizio perché l’uomo è un animale sociale, ricordiamocelo sempre, e non può essere disarcionato dal contesto in cui si è evoluto e ancora oggi, vi garantisco, si evolve.
Allora, come ci si può ammalare in questo periodo? Questa domanda è interessante perché ci consente di poter trovare una sorta di nuovo concetto: io prevengo la malattia, io so come può nascere la malattia e quindi mi organizzo. Noi sappiamo che questa pandemia continuerà per un altro lasso di tempo che non sappiamo quanto possa essere lungo e ci stiamo organizzando per poter affrontare il 2021 con una resilienza più potente. Ecco un concetto importante, resilienza, e alla fine di questa lettura sarete più resilienti, sarete più capaci proprio grazie alla conoscenza.

Il comportamento sociale e l’infiammazione sono collegati da un cross-talk, cioè da un’interazione. Se pensiamo all’isolamento sociale durante il corso di una sindrome influenzale, vediamo che il malato si ritira, si chiude, va incontro ad una sorta di riduzione di tutti i sistemi che consumano energia. Compaiono inappetenza, affaticamento, sonnolenza, dolori muscolo scheletrici, apatia, anedonia, cioè mancanza di volontà, di interesse e appagamento nel fare le cose, oltre chiaramente la febbre, e se escludiamo proprio la febbre, questi segnali sono attribuibili anche al disturbo depressivo.
Non tutti, ma una gran parte dei disturbi depressivi è collegata ad uno stato infiammatorio sistemico e da questo si evince che l’infiammazione, l’isolamento sociale e il comportamento sociale sono collegati da un anello di congiunzione che si chiama citochina.
La citochina è una sostanza che ha completamente stravolto il concetto di malattia e ha fatto nascere il nome ad una scienza olistica meravigliosa che mette in connessione la psiche, il sistema nervoso, il sistema endocrino e il sistema immunitario. Parlo della psiconeuroendocrinoimmunologia,  tante cellule che insieme collaborano per dare omeostasi, equilibrio all’interno di un sistema. Vi ricordo la teoria umorale d’Ippocrate, ripresa da Galeno, di cui ho parlato nel video e nell’articolo sul temperamento, per cui più fluidi messi insieme, armonizzati, consentono l’eucrasia, termine che sta ad indicare benessere che non è altro che armonia, armonia tra più fluidi.

Oggi sappiamo che le citochine sono sostanze infiammatorie che se non circolano nel nostro organismo in modo armonico, creano malattia e quindi Ippocrate e Galeno avevano ragione. Grazie alla psiconeuroendocrinoimmunologia, possiamo affermare che le citochine infiammatorie sono un anello di congiunzione tra il sistema immunitario e il comportamento sociale.
Un virus come il SARS-CoV-2 della famiglia dei coronavirus innesca meccanismi molto simili. Abbiamo tutti constatato come l’espressione fenotipica, cioè come una malattia può tradursi in un fenomeno, nel caso del coronavirus è assolutamente relativa. Ci sono infatti soggetti che fanno delle piccole sindromi influenzali classiche o soggetti che invece infiammano molto, fino ad arrivare a polmoniti interstiziali importanti, potenti, a patologie sistemiche, cioè a danni d’organo come, per esempio, il fegato, i reni, e possono subire anche danni cerebrali.
Cosa c’è alla base di questa diversificazione? Come mai alcuni soggetti sono asintomatici e altri addirittura vanno incontro ad un fenomeno che si chiama coagulazione intravasale disseminata, cioè un tromboembolismo sistemico che purtroppo porta alla morte?
Chi sono i pazienti che vanno incontro a questo fenomeno così drammatico, a una cascata infiammatoria che porta alla morte nonostante tutti i nostri tentativi di poter correggere quel meccanismo? È solo il coronavirus che può provocare tutto questo?
La risposta è scientificamente no. Ricordatevi che l’interazione tra l’agente patogeno, quindi il microrganismo, e l’uomo che lo ospita, è fondamentale. Non possiamo dare tutta questa importanza all’agente
patogeno, dobbiamo dare importanza al nostro essere, a come noi lo sappiamo gestire, incontrare ed elaborare.
D’altra parte, chi ci rimette la vita è proprio il soggetto più anziano, quindi più fragile, che ha minori capacità di instaurare nell’organismo delle strategie di coping, cioè di adattamento, ed è proprio quell’organismo che ha più comorbilità: la patologia vascolare del cervello, la patologia vascolare del cuore, il diabete mellito, l’ipertensione arteriosa, sono tutti fattori di rischio di morte da coronavirus, tanto che il 60.5 per cento dei nostri decessi in Italia è stato provocato in persone di età superiore agli 80 anni.
Questo sta ad indicarci che l’età è un fattore di rischio insieme alle comorbidità, ma chiedere agli anziani di stare chiusi in casa nel timore che il coronavirus possa essere fatale per loro, è un modo di fare scienza assolutamente sbagliato.
Molti hanno detto che il coronavirus colpisce anche i giovani e quindi hanno raccomandato a tutti gli adolescenti, a tutti i giovani adulti di stare attenti perché nessuno è escluso ed anche questo non è un modo di fare scienza. Bisogna entrare nei termini esistenziali di quei singoli individui per capire chi fossero, cosa avevano esperito a livello esistenziale fino a quel momento e come avevano fatto funzionare il loro sistema nervoso autonomo.
Che cos’è questo sistema nervoso autonomo? È una branca del sistema nervoso periferico che si divide in due bracci: il sistema simpatico ed il sistema parasimpatico.

Nel sistema nervoso autonomo riconosciamo due parti, quella del parasimpatico e quella del simpatico. Che cosa c’entra tutto questo? C’entra perché il sistema nervoso autonomo simpatico e quello parasimpatico sono in collaborazione esistenziale, comunicano, collaborano nei processi fondamentali di attacco e fuga, e in questo caso abbiamo il sistema simpatico in collaborazione con l’asse neuroendocrino ipofisi-ipotalamo-surrene (HPA) oppure il sistema parasimpatico che presiede alle funzioni della digestione e del riposo. Quindi possiamo semplificare affermando che il simpatico accelera mentre il parasimpatico rallenta. Dal fine tuning, dalla sintonia perfetta tra questi due sistemi, noi abbiamo una omeostasi, cioè un equilibrio tra i massimi sistemi del nostro organismo.
Negli ultimi tempi è stato scoperto un fenomeno fantastico dal punto di vista scientifico, oserei dire innovativo, perché ci consente di poter capire cosa fa l’isolamento sociale a questi due diversi sistemi e farci comprendere che se io mi faccio trovare impreparato rispetto all’equilibrio di questi due sistemi, succede che mi infiammo. Cosa significa infiammazione? L’infiammazione significa l’incapacità di poter mantenere un equilibrio in seguito ad un fenomeno che per esempio un virus può determinare. Immaginate quindi il coronavirus che entra nel nostro organismo attraverso le vie aeree con le goccioline di Flügge, le microgocce di saliva, e incontra il nostro sistema nervoso autonomo. Potenzialmente incontra per primo proprio il sistema nervoso parasimpatico, vi ricordate quello che rallenta, e lo incontra attraverso le citochine. Il virus entra e incontra i macrofagi, le cellule del nostro sistema immunitario che producono citochine in risposta a questo tipo di contatto e le citochine interagiscono con le terminazioni nervose vagali. Stimolano cioè il nervo vago che, allertato, avvisa il cervello di una condizione nella quale occorre metterci al riparo perché c’è un agente patogeno che ci sta stimolando, che ci sta in qualche modo incalzando.
E allora che cosa fa il sistema parasimpatico? Attiva il meccanismo chiamato in inglese sickness behaviour, il comportamento della malattia, ed è quel comportamento di cui ho parlato per le sindromi influenzali in cui il soggetto si isola, si ritira, si riposa. Ecco il riposo ed entra in gioco il concetto di parasimpatico che di fronte a una minaccia dà vita a qualcosa che è stato dimostrato studiando un’area sottocorticale del telencefalo chiamata corpo striato, che si attiva con stimoli associati alla ricompensa o all’avversione. Di fronte alla minaccia sociale, il parasimpatico crea un fenomeno di disaccoppiamento per il quale mi tengo vicino le persone che mi vogliono bene e nelle quali credo, mentre allontano le figure che sento negative, che non mi piacciono. Quindi in questo caso l’isolamento sociale è assolutamente virtuoso perché mi distacco dal dispendio energetico, guardo le minacce sociali con sospetto e mi tengo vicino le persone che mi possono seguire e che possono prendersi cura di me. Allora di fronte ad un fenomeno di questo tipo, se voi bloccate questi organismi, se bloccate questi cervelli, queste persone che hanno bisogno di cure, che cosa succede secondo voi?
La risposta è molto chiara: continuano ad infiammarsi. Anziché mettere in atto quel meccanismo fisiologico che ci consente di poter spegnere l’infiammazione attraverso la possibilità di stare a contatto con le persone che ci vogliono bene, accresciamo l’azione del parasimpatico che, non esaurendosi, porterà all’attivazione del sistema simpatico. A questo punto, quell’isolamento sociale sguarnito della possibilità di avere una persona che ci sostiene, diventa allarme. Il soggetto anziano si allarma e diventa iperattivo sul versante simpatico. Attiva le cellule del sistema immunitario che libera citochine che infiammano ulteriormente l’organismo umano.

Isolando un anziano fragile impedendogli la possibilità di sentirsi preso in cura, di sentirsi sostenuto dalle persone care, inconsapevolmente inneschiamo una reazione del suo sistema immunitario che produce altre citochine e quindi il meccanismo diventa amplificativo ed esponenziale. Non abbiamo una condizione di omeostasi, ma quegli organismi vanno incontro ad un processo infiammatorio potenzialmente letale.
D’altra parte, dobbiamo renderci conto che il sistema nervoso autonomo in realtà non è autonomo. Ecco, quindi, che entriamo nella sfera del vivere in consapevolezza. Gli anziani con delle patologie, delle comorbilità, come ad esempio quelle degenerazioni multiple proprie della malattia di Alzheimer o della malattia di Parkinson, oppure che sono affetti da osteoartrosi e pervasi da dolori sistemici, sono pazienti già infiammati perché oggi si sa che patologie come l’artrite reumatoide o come il morbo di Crohn o come la rettocolite ulcerosa o come l’endotelio, come le placche ateromasiche, carotidee, quelle che portano a ictus, sono malattie infiammatorie.

Oggi sappiamo che citochine infiammatorie come il tumor necrosis factor, TNF, il fattore di necrosi tumorale, sono alla base di patologie sistemiche ed è incredibile come terapie anticitochiniche, quindi stiamo parlando del settore farmaceutico, curino queste malattie. È importante sapere che l’interleuchina-6, che è una citochina infiammatoria, così come l’nterleuchina-1 e il TNF, è stata oggetto di studio proprio nel coronavirus. Il tocilinizumab utilizzato normalmente nell’artrite reumatoide, è un anticorpo monoclonale inbitore della inteleuchina 6, cioè la silenzia per placare e rimodulare la risposta infiammatoria. Sembra un paradosso che si debba ridurre una citochina che deve aiutare contro il virus, ma bisogna proprio ridurla in quel soggetto che nel frattempo la tempesta infiammatoria sta uccidendo. Allora perché il mio sistema immunitario, infiammatorio, anziché proteggermi mi crea un fenomeno infiammatorio a cascata che porta a tutto quel dramma?
Abbiamo visto quanto l’isolamento sociale forzato, senza ragionevolezza, può creare danno, e adesso vi introduco un concetto un pochino più severo. Ma noi cosa stiamo facendo per creare omeostasi all’interno del nostro organismo? Quanto ci stiamo facendo trovare pronti nel momento della verità? È scientificamente provato che il nostro essere proni ad un’infiammazione dipende da noi, non dipende dal coronavirus e non dipende neanche dal nostro Governo.
Quanto siamo resilienti, quanto siamo capaci di essere, tra virgolette, immuni da una patologia infiammatoria sistemica come quella da un virus così sfidante come il coronavirus che sta lì quasi a dirci: vediamo chi è più forte, vediamo chi seleziono, vediamo chi andrà avanti nelle prossime generazioni, vediamo quanto siete evoluti. Allora il sistema nervoso autonomo non è autonomo e chiunque si sia sottoposto almeno una volta alla tecnica terapeutica chiamata biofeedback, sa benissimo che può controllare il battito cardiaco. La tachicardia è simpatico-tonica e la posso ridurre proprio attraverso il biofeedback attivando il parasimpatico che in fisiologia quando non è frustrato da quel comportamento di forzatura all’isolamento, ha un’azione antinfiammatoria attraverso un neurotrasmettitore che si chiama acetilcolina. Quando tutto funziona normalmente, l’acetilcolina prodotta dalparasimpatico dice al simpatico di non attivarsi e comanda al macrofago di non produrre più le citochine infiammatorie perché tutto è a posto, tutto è sistemato, tutto è regolare. Ma se voi vivete dalla mattina alla sera con uno stato di tensione cronica, quel parasimpatico non sarà in grado di poter aiutare il simpatico a non attivarsi. Voi state facendo lavorare il sistema simpatico ad alto regime e impedite al parasimpatico di poter fare da controbilanciamento per ottenere quell’omeostasi, quella eucrasia di cui parlavano i nostri antichi. Allora come fare? Attivando i centri superiori del cervello.
Vi ricordo che il cervello è costituito da strati evolutivi sempre più importanti, da quello rettiliano a quello limbico e a quello neocorticale attraverso l’evoluzione della specie umana. È incredibile come siamo passati da cervelli molto arcaici a cervelli che allo stato attuale io definisco evoluti perché abbiamo un cervello alto che può aiutare il cervello basso. Quindi il sistema nervoso autonomo che, guarda caso, si trova proprio collocato nel cervello arcaico e per questo detto autonomo, autonomo non lo è affatto perché è assolutamente condizionabile in modo virtuoso dalla neocorticale che è la parte del cervello più recente e sede di tutte le funzioni cognitive e razionali. Abbiamo quindi la possibilità di assistere a quel fenomeno chiamato in inglese top down inhibition, cioè l’inibizione, il blocco dalla parte alta alla parte bassa di quell’impulso nervoso che, se lasciato libero da emozioni non consapevolizzate, crea infiammazione, crea la scarica dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrenalico. Poi non dimentichiamoci dell’amigdala, il nucleo situato nella parte dorsomediale del lobo temporale del cervello che gestisce le emozioni, e in particolar modo la paura. È responsabile della reazione neuronale fisiologica conosciuta come reazione di attacco e fuga e se non è bene regolata può provocare il panico perché rappresenta proprio il nucleo delle emozioni.

Quanto siamo consapevoli delle nostre emozioni? Quanto, quando ci emozioniamo, ci rendiamo conto che lo stiamo facendo e che cosa ci indica quell’emozione, quale direzione ci indica, quale posizione esistenziale abbiamo in quel momento, in quale tempo viviamo. Se nel qui e ora, e quindi vivendo ogni istante come se fosse l’unico perché è l’unico, oppure nel tempo illusorio, nel pensiero della mente sempre rimuginante tra passato e futuro, nel tic toc, nel kronos, perdendomi il kairós, l’accadimento? E questo è un accadimento per l’intera umanità, è un momento in cui dovremmo stare tutti nell’istante a ragionare del perché e invece produciamo caos.
Allora come facciamo ad essere resilienti? La resilienza viene dalla metallurgia, dall’ingegneria. L’accezione metallurgica di resilienza è un metallo che io colpisco, impatto su di esso e si deforma, ma poi ritorna alla forma originaria. In biologia è ancora più bello il concetto di resilienza: la resilienza non è nient’altro che la capacità adattiva dinamica di poter, non soltanto far fronte alle sfide della vita, ma soprattutto saperle cogliere per poter uscire fuori da quel tunnel più forti, più evoluti, più belli e più saggi.
Questo concetto di resilienza lo possiamo ritrovare in un umanista e scrittore del passato. Quando ho letto per la prima volta questo scritto, mi sono reso conto di quanto siamo grandi come esseri e ci dovremmo ricordare di questi nostri antichi. Non so quanti di voi abbiano studiato Tommaso Moro, Thomas More, parliamo di 500 anni fa. Nel 1534 fu imprigionato e condannato a morte da re Enrico VIII e nella Torre di Londra, aspettando la sua ultima ora avvenuta l’anno successivo, scrisse questa preghiera così bella e piena di resilienza:
“Signore dammi la forza di cambiare le cose che posso modificare e la pazienza di accettare quelle che non posso cambiare e la saggezza per distinguere la differenza tra le une e le altre.
Dammi Signore, un’anima che abbia occhi per la bellezza e la purezza, che non si lasci impaurire dal peccato e che sappia raddrizzare le situazioni.
Dammi un’anima che non conosca noie, fastidi, mormorazioni, sospiri, lamenti. Non permettere che mi preoccupi eccessivamente di quella cosa invadente che chiamo ‘io’.
Dammi il dono di saper ridere di una facezia, di saper cavare qualche gioia dalla vita e anche di farne partecipi gli altri.
Signore dammi il dono dell’umorismo.”

Tommaso Moro in questa preghiera descriveva la resilienza come accettazione senza giudizio. Il resiliente sa benissimo che deve accettare le cose che non può cambiare e mette a fuoco le cose sulle quali invece può evidentemente ragionare, evolvere. Il resiliente prende non troppo sul serio la sua esistenza, sa che la vita è fatta di cose brutte e di cose belle. Il resiliente è protagonista, non sta nel senso di colpa rispetto all’errore, ma sa che dall’errore si può ottenere la crescita, si può ottenere una nuova evoluzione della specie umana. Il resiliente ha la capacità di far attivare le funzioni esecutive superiori che sono indovate all’interno della corteccia neocorticale, sono quelle aree del cervello più evolute che ci consentono di poter avere un problem solving molto alto, quindi la capacità di risolvere i problemi, e una capacità decisionale altrettanto forte. Sono quei soggetti che grazie a queste funzioni esecutive molto potenti, grazie all’esperienza che hanno fatto e recuperando l’errore che hanno fatto, sanno benissimo che in quel preciso istante si devono comportare in modo diverso, che devono prendere un’altra strada. I resilienti non perseverano, i resilienti non resistono. Chi resiste sta lì pronto a cercare di tamponare la situazione o, addirittura, chi si frustra utilizza degli espedienti tossici come, per esempio, una sostanza d’abuso per cercare di risolvere quel problema. Il resiliente non ha bisogno di questo, il resiliente si gratifica per la crescita esistenziale che in quel preciso istante, proprio grazie all’esperienza che sta facendo, si sta garantendo. È una sorta di tossicodipendente della crescita esistenziale, è volto all’evoluzione della sua singola vita, della sua singola esperienza di vita, della sua singola esistenza e sa benissimo che quell’evoluzione non fa bene soltanto a lui, ma fa bene anche alle persone con le quali cresce in armonia.
Il resiliente è centrato, è autonomo, ma non come il sistema nervoso autonomo, è autonomo dal punto di vista della possibilità di fare pushback e cioè respingere al mittente il giudizio. Non ha paura del giudizio perché lui dentro di sé sa stare solo. Ecco, quindi, che l’isolamento sociale deciso per stare bene con se stessi, diventa un’opportunità e ci sono studi che dicono che coloro che si isolano creano, ma prima ancora di essersi isolati hanno saputo stare con loro stessi e con il mondo. Certamente, epigeneticamente si può nascere con una certa resilienza, ci saranno alcuni che avranno un polimorfismo genico, cioè una ripetizione allelica genetica in grado di dar loro la possibilità di essere resilienti più di altri, ma noi non dobbiamo frustrarci e compararci agli altri perché non siamo tutti uguali ed è bella anche la diversità. Il resiliente non sta sull’altro, il resiliente sta sempre centrato su se stesso e quindi il vostro “tempo zero” del metodo scientifico che state applicando, e cioè dello studio alla vostra esistenza, siete voi e non andate mai oltre il vostro essere. State sulla trave e lasciate andare la pagliuzza.
Vi volevo lasciare con una parabola di Matteo 25, versetti 1-13:
“Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le lampade, ma non presero con sé olio; le sagge invece, insieme alle lampade, presero anche dell’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e dormirono. A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro! Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. E le stolte dissero alle sagge: Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono. Ma le sagge risposero: No, che non abbia a mancare per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene. Ora, mentre quelle andavano per comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa.
Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici! Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco.
Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora”.
L’esegesi di questa parabola meravigliosa, io non voglio essere tra virgolette provocatore della Chiesa cattolica e chi crede che l’esegesi della Chiesa cattolica sia quella da sposare deve continuare a farlo, ma da neuroscienziato vi dico che Gesù in questa parabola ha descritto la scienza dell’esistenza. Ha parlato di una lampada e la lampada è il cervello, ha parlato di olio e l’olio è l’umore, è la neurochimica, sono le citochine, sono i neurotrasmettitori, sono quelle sostanze che danno proprio luce a quella lampada. Ha parlato del qui e ora, ha parlato della veglia, ha parlato del kairós, lo sposo che tarda e che non si sa quando arriverà l’accadimento. E soprattutto ha esaltato il concetto della centralità dell’essere dicendo quel “non possiamo darvi dell’olio affinché non ne verrà a mancare a noi e voi”.

Allora l’augurio più grande che vi voglio lasciare per il prossimo anno e per tutti gli anni che verranno è di prendervi cura di voi affinché possiate essere strumento per un’umanità più grande, più evoluta e più consapevole.

 

Dott. Gianluca Bruti – Neurologo

 

Iscriviti